L’altra
sera un vascello con le vele spiegate è entrato nel canale della
Giudecca scivolando sull’acqua. Scrivo scivolando poiché lo
spettacolo di questa imbarcazione elegante, lunga, ma poco sviluppata
in altezza ci ha risparmiato il rumore, la scia, il fumo che invece
accompagnano le medie e gradi navi, tozzi grattacieli senza forma né
rispondenza in alcuna tradizione. L’ho seguito con gli occhi
camminando lungo le Zattere, insieme a molte persone che ammiravano
dai ponti e dalla fondamenta quell’estraneo gentile che andava a
incontrare il salotto acqueo della città.
E lo
ringrazio perché mi ha spronato a ordinare e raccogliere alcune
riflessioni che si sviluppano proprio dall’aver osservato che il
passaggio di quell’imbarcazione, che si rifà a modelli antichi,
non oscurava il paesaggio e che i suoi alberi non sovrastavano i
tetti delle case, dei palazzi, delle chiese.
E mi
sono tornati in mente i disegni di Le Corbusier esemplificativi delle
proporzioni di Venezia, quel rapporto armonioso tra la figura umana e
l’altezza degli edifici che procura quella peculiare esperienza di
‘benessere’ che chiunque prova a contatto di questa struttura
urbana. Il grande architetto, che più volte aveva spiegato quanto
Venezia sia “un meccanismo perfetto, un sistema corretto e
sapiente, un prodotto preciso delle vere dimensioni umani”, scrisse
allarmato nell'ottobre del 1962 al Sindaco. Lo pregava di non mettere
a repentaglio proprio la caratteristica “così mirabile” della
città, ovvero “la sua scala umana”. Ciò che temeva di più
infatti era, detto con le sue parole, “l'invasione della
dismisura”.
Ora
credo che si possa convenire che ogni discussione sul futuro della
città debba avere alle spalle il riconoscimento del "carattere"
della città. La lezione di Le Corbusier, ma anche di molti altri,
primo tra tutti Sergio Bettini, chiarisce che Venezia non è una
città verticale proprio in quanto associata in maniera indissolubile
alla relazione con il corpo umano. Ma potremmo aggiungere che, per la
sua conformazione storica, neppure il territorio di gronda che la
circonda lo è.
L'agio
percepito proviene infatti da quella magica linea dell'acqua e
dell'aria, sempre con le parole di Le Corbusier, che non è mai del
tutto oscurata: lo sguardo scorre in orizzontale e quando incontra
altezze sosta un tempo limitato e poi è libero di ritrovare quella
linea di riferimento.
Se
questo elemento è già in sé qualificante, ne dobbiamo aggiungere
un altro, altrettanto cruciale per la sua vivibilità, seppur meno
riconosciuto, e che in parte è un derivato. Venezia è città delle
donne e non solo degli uomini poiché gli elementi formali maschili e
femminili vi sono mescolati sapientemente, sposati come nei tanti
rituali matrimoniali della storia della città, oppure alternati
senza che uno prevalga sull'altro, restituendoci la completezza del
vivere. E tra tutte le simbologie quella che meglio esprime la
dualità è proprio il rapporto di equilibrio tra verticalità
(maschile) e orizzontalità (femminile). È dunque una città
proporzionata non solo rispetto a un generico 'corpo umano', ma ai
corpi sessuati. Questo, come ricordava Le Corbusier, fa di Venezia
una città altra
e unica nel rispettare quell'aurea proporzione, evitando la
'dismisura'.
Quando
si discute di interventi nel tessuto urbano, di decisioni che
riguardano il futuro di una città, di qualsiasi città ma certamente
di questa, patrimonio dell'umanità proprio per la sua unicità, ci
si dovrebbe nutrire del pensiero e degli studi di coloro che l'hanno
saputa comprendere ed amare e che non sono pochi. Il dibattito
dovrebbe cioè testimoniare la grandezza che si è sedimentata e
affrontare con questi strumenti le decisioni da prendere. In gioco
non è semplicemente l'intervento sulla viabilità, il traffico o su
nuove costruzioni o nuovi canali: in realtà si tracciano segni nel
territorio che sono simboli, si imprimono significati, si modificano
identità e strutture fondative del vivere.
C’è
questa consapevolezza?
Prendiamo
in considerazione il dibattito che si sta svolgendo intorno alla
torre di Pierre Cardin. È indubbio che con quel progetto si ha a che
fare con la ‘dismisura’ e con una verticalità estrema, non
compensata dall'elemento femminile. Si discute se sia legittimo che
la sua altezza vada a oscurare il campanile di S. Marco, modificando
lo skyline. Ma la competizione in altezza che cosa esprime o non
esprime?
La
verticalità dei campanili aveva una funzione di riferimento per
tutta la comunità, serviva a orientare i pellegrini, a indicare la
strada a chi si muoveva a piedi, segnalava la piazza, il centro
comune, zona di mercato e di incontro; si collegava alla chiesa che
conteneva quel suo ergersi sviluppandosi in orizzontalità; era ed è
un 'bene comune', non espressione di un'individualità. Talvolta,
invece, si paragona la torre dello stilista a un faro. Sarebbe un
faro per Marghera. Un faro è un edificio che fa da riferimento a
tutte le imbarcazioni e ha funzioni pubbliche, indispensabili per la
salvaguardia dei naviganti; inoltre è un punto cruciale della linea
di costa, ancorato alla morfologia del territorio.
Se
riflettiamo ci accorgiamo quindi che questi non sono termini di
paragone pertinenti.
C'è
qualcuno che discute sulla simbologia che questa torre trasmette in
relazione al contesto? Non mi pare. Piuttosto assistiamo a un
dibattito incentrato sulle misure, più piccolo o più grande, di
quanto più piccolo, quasi fosse un membro virile e non un
segno/simbolo che si imprime nel territorio. Quella verticalità in
realtà è nuda e priva di quel cruciale equilibrio tra elementi
maschili e femminili che devono essere armonicamente rappresentati
nel territorio.
Anche
le ben più articolate discussioni sulle grandi navi in laguna, che
prendono in considerazione la loro ‘dismisura’, si incentrano
giustamente sui danni e sui pericoli (per altro assai gravi per la
sopravvivenza della città) ma tendono a dimenticare come tale
verticalità e il loro ingombro senza bellezza, divenuti ormai un
elemento ‘stabile’ del paesaggio (dato il numero di navi che
passano e sostano) inficiano la 'mirabile proporzione', che è la
‘cifra’ della città.
Di
che cosa parliamo quando discutiamo di città? Di segni nella
comunità, di rappresentazioni, di elementi che creano distanza o
appartenenza, di caratteristiche formali che sanno nutrire o
impoverire una comunità.
Non
se ne faccia pertanto mere questioni di misure bensì di ordine
simbolico.
È forse opportuno ritornare allora all’amore di Le Corbusier per la nostra città e alla perentorietà con cui affidava al Sindaco il suo testamento spirituale per Venezia: “Non avete il diritto di alterare il “profilo” di Venezia. Non avete il diritto di aprire la porta al disordine architettonico e urbanistico.”
È forse opportuno ritornare allora all’amore di Le Corbusier per la nostra città e alla perentorietà con cui affidava al Sindaco il suo testamento spirituale per Venezia: “Non avete il diritto di alterare il “profilo” di Venezia. Non avete il diritto di aprire la porta al disordine architettonico e urbanistico.”
Tiziana Plebani