mercoledì 3 ottobre 2012

La regola dei corpi, la misura della città


L’altra sera un vascello con le vele spiegate è entrato nel canale della Giudecca scivolando sull’acqua. Scrivo scivolando poiché lo spettacolo di questa imbarcazione elegante, lunga, ma poco sviluppata in altezza ci ha risparmiato il rumore, la scia, il fumo che invece accompagnano le medie e gradi navi, tozzi grattacieli senza forma né rispondenza in alcuna tradizione. L’ho seguito con gli occhi camminando lungo le Zattere, insieme a molte persone che ammiravano dai ponti e dalla fondamenta quell’estraneo gentile che andava a incontrare il salotto acqueo della città.
E lo ringrazio perché mi ha spronato a ordinare e raccogliere alcune riflessioni che si sviluppano proprio dall’aver osservato che il passaggio di quell’imbarcazione, che si rifà a modelli antichi, non oscurava il paesaggio e che i suoi alberi non sovrastavano i tetti delle case, dei palazzi, delle chiese.
E mi sono tornati in mente i disegni di Le Corbusier esemplificativi delle proporzioni di Venezia, quel rapporto armonioso tra la figura umana e l’altezza degli edifici che procura quella peculiare esperienza di ‘benessere’ che chiunque prova a contatto di questa struttura urbana. Il grande architetto, che più volte aveva spiegato quanto Venezia sia “un meccanismo perfetto, un sistema corretto e sapiente, un prodotto preciso delle vere dimensioni umani”, scrisse allarmato nell'ottobre del 1962 al Sindaco. Lo pregava di non mettere a repentaglio proprio la caratteristica “così mirabile” della città, ovvero “la sua scala umana”. Ciò che temeva di più infatti era, detto con le sue parole, “l'invasione della dismisura”.
Ora credo che si possa convenire che ogni discussione sul futuro della città debba avere alle spalle il riconoscimento del "carattere" della città. La lezione di Le Corbusier, ma anche di molti altri, primo tra tutti Sergio Bettini, chiarisce che Venezia non è una città verticale proprio in quanto associata in maniera indissolubile alla relazione con il corpo umano. Ma potremmo aggiungere che, per la sua conformazione storica, neppure il territorio di gronda che la circonda lo è.
L'agio percepito proviene infatti da quella magica linea dell'acqua e dell'aria, sempre con le parole di Le Corbusier, che non è mai del tutto oscurata: lo sguardo scorre in orizzontale e quando incontra altezze sosta un tempo limitato e poi è libero di ritrovare quella linea di riferimento.
Se questo elemento è già in sé qualificante, ne dobbiamo aggiungere un altro, altrettanto cruciale per la sua vivibilità, seppur meno riconosciuto, e che in parte è un derivato. Venezia è città delle donne e non solo degli uomini poiché gli elementi formali maschili e femminili vi sono mescolati sapientemente, sposati come nei tanti rituali matrimoniali della storia della città, oppure alternati senza che uno prevalga sull'altro, restituendoci la completezza del vivere. E tra tutte le simbologie quella che meglio esprime la dualità è proprio il rapporto di equilibrio tra verticalità (maschile) e orizzontalità (femminile). È dunque una città proporzionata non solo rispetto a un generico 'corpo umano', ma ai corpi sessuati. Questo, come ricordava Le Corbusier, fa di Venezia una città altra e unica nel rispettare quell'aurea proporzione, evitando la 'dismisura'.
Quando si discute di interventi nel tessuto urbano, di decisioni che riguardano il futuro di una città, di qualsiasi città ma certamente di questa, patrimonio dell'umanità proprio per la sua unicità, ci si dovrebbe nutrire del pensiero e degli studi di coloro che l'hanno saputa comprendere ed amare e che non sono pochi. Il dibattito dovrebbe cioè testimoniare la grandezza che si è sedimentata e affrontare con questi strumenti le decisioni da prendere. In gioco non è semplicemente l'intervento sulla viabilità, il traffico o su nuove costruzioni o nuovi canali: in realtà si tracciano segni nel territorio che sono simboli, si imprimono significati, si modificano identità e strutture fondative del vivere.
C’è questa consapevolezza?
Prendiamo in considerazione il dibattito che si sta svolgendo intorno alla torre di Pierre Cardin. È indubbio che con quel progetto si ha a che fare con la ‘dismisura’ e con una verticalità estrema, non compensata dall'elemento femminile. Si discute se sia legittimo che la sua altezza vada a oscurare il campanile di S. Marco, modificando lo skyline. Ma la competizione in altezza che cosa esprime o non esprime?
La verticalità dei campanili aveva una funzione di riferimento per tutta la comunità, serviva a orientare i pellegrini, a indicare la strada a chi si muoveva a piedi, segnalava la piazza, il centro comune, zona di mercato e di incontro; si collegava alla chiesa che conteneva quel suo ergersi sviluppandosi in orizzontalità; era ed è un 'bene comune', non espressione di un'individualità. Talvolta, invece, si paragona la torre dello stilista a un faro. Sarebbe un faro per Marghera. Un faro è un edificio che fa da riferimento a tutte le imbarcazioni e ha funzioni pubbliche, indispensabili per la salvaguardia dei naviganti; inoltre è un punto cruciale della linea di costa, ancorato alla morfologia del territorio.
Se riflettiamo ci accorgiamo quindi che questi non sono termini di paragone pertinenti.
C'è qualcuno che discute sulla simbologia che questa torre trasmette in relazione al contesto? Non mi pare. Piuttosto assistiamo a un dibattito incentrato sulle misure, più piccolo o più grande, di quanto più piccolo, quasi fosse un membro virile e non un segno/simbolo che si imprime nel territorio. Quella verticalità in realtà è nuda e priva di quel cruciale equilibrio tra elementi maschili e femminili che devono essere armonicamente rappresentati nel territorio.
Anche le ben più articolate discussioni sulle grandi navi in laguna, che prendono in considerazione la loro ‘dismisura’, si incentrano giustamente sui danni e sui pericoli (per altro assai gravi per la sopravvivenza della città) ma tendono a dimenticare come tale verticalità e il loro ingombro senza bellezza, divenuti ormai un elemento ‘stabile’ del paesaggio (dato il numero di navi che passano e sostano) inficiano la 'mirabile proporzione', che è la ‘cifra’ della città.
Di che cosa parliamo quando discutiamo di città? Di segni nella comunità, di rappresentazioni, di elementi che creano distanza o appartenenza, di caratteristiche formali che sanno nutrire o impoverire una comunità.
Non se ne faccia pertanto mere questioni di misure bensì di ordine simbolico. 
È forse opportuno ritornare allora all’amore di Le Corbusier per la nostra città e alla perentorietà con cui affidava al Sindaco il suo testamento spirituale per Venezia: “Non avete il diritto di alterare il “profilo” di Venezia. Non avete il diritto di aprire la porta al disordine architettonico e urbanistico.”
Tiziana Plebani